La loro abolizione è da sempre una vecchia battaglia del Pri

Province: problema di igiene costituzionale

di Tommaso Edoardo Frosini*

Intervento in occasione della manifestazione “Repubblicani, Liberali, Democratici”, Roma, Teatro Sala Umberto, 7 luglio 2012

Un particolare ringraziamento all'onorevole Nucara che mi ha invitato a questa manifestazione e mi ha dato la possibilità di tornare nella mia casa di appartenenza: io ho avuto l'onore di essere componente del Consiglio nazionale e poi della Direzione del partito, prima di dovermi dimettere per via di una nomina in un'autorità indipendente. Ma ricordo con piacere quel periodo dell'impegno politico perché credevo e credo tuttora in questa battaglia che Nucara ha riassunto molto bene nella formula della “liberaldemocrazia”.

Il concetto di liberalismo è oggi sempre valido ma molto abusato. Da destra, da sinistra e dal centro tutti si dichiarano liberali, mentre nessuno ha il coraggio di dichiararsi liberaldemocratico e cioè il sapere condurre una battaglia politica che metta insieme la libertà con l'uguaglianza, con la preoccupazione di garantire i diritti sociali, con la democrazia e cioè la partecipazione dei cittadini per ciò che riguarda il loro Stato. Ricominciare, nel segno della tradizione del Partito repubblicano, una battaglia che assuma come punto di riferimento il concetto di liberaldemocrazia è un tentativo molto nobile e, soprattutto oggi, molto significativo e urgente. Questo progetto oggi è quello giusto, è quello su cui vale veramente la pena fare una battaglia impegnandosi.

I due obiettivi che vengono fuori dalla relazione del segretario del PRI Francesco Nucara sono: il cambiamento della Costituzione, la realizzazione degli Stati Uniti d'Europa. Due obiettivi molto ambiziosi cui bisogna puntare. Nucara ha ricordato l'impegno dei repubblicani alla Costituente e ha precisato anche che il loro contributo non ha dato purtroppo concretamente una realizzazione di alcuni propositi dei repubblicani stessi. E' vero, ma è stato un contributo molto importante e, a distanza di anni, ce ne possiamo rendere conto. Voglio citare due costituenti repubblicani e legare alle loro battaglie all'Assemblea due profili della nostra organizzazione statale: da un lato, il federalismo, che è stata la battaglia di Oliviero Zuccarini. Dall'altra, la battaglia sulla forma di governo, con un famoso ordine del giorno alla Costituente che portava la firma di Tomaso Perassi. Questi due repubblicani si impegnarono per realizzare l'uno una forma di federalismo che fosse realmente tale; l'altro una forma di governo parlamentare che evitasse le degenerazioni del parlamentarismo: questa era la formula dell'ordine del giorno di Perassi. Sono due problemi con cui noi oggi continuiamo a confrontarci. Oggi ci sono grandi perplessità su come è stato disegnato il nostro federalismo con la riforma del titolo V; e se sia veramente tale rispetto ai due maggiori esempi che conosciamo: il federalismo in Germania e quello negli Stati Uniti Il nostro è un federalismo nato storto o un federalismo che non si è evoluto. Pensiamo al federalismo fiscale, partito con grande slancio nel governo Berlusconi, addirittura con una delega legislativa per consentire al governo di emanare i decreti attuativi, ma che ora si è interrotto e di cui nessuno sa più nulla. La cosa si è completamente bloccata nel timore che quell'indirizzo non fosse più omogeneo rispetto alle esigenze sociali, rispetto al problema tributario, fiscale, della distribuzione delle risorse per salvaguardare quella componente fondamentale della liberaldemocrazia costituita appunto, come abbiamo detto, dai diritti sociali.

Ripartiamo allora dal 1946, dall'elezione dell'Assemblea Costituente e ritroviamo i nostri costituenti, Zuccarini, Perassi, Ugo La Malfa, con quell'intuizione felicissima sull'articolo 1. Articolo che non è necessario cambiare, ma vivere come tale, come se all'articolo 1 - primo comma - ci fosse il “diritto alla libertà”. L'importante è il cambiamento concreto vissuto dai cittadini; viviamo l'articolo 1 come se lì ci fosse scritto che l'Italia è una Repubblica democratica fondata sui diritti di libertà. Cerchiamo di vivere la Costituzione e praticarla nel nome di un articolo che apre la Carta stessa, un articolo in cui si riconoscano come fondanti i diritti di libertà!

Veniamo alla riforma della Costituzione: il che può risultare un tormentone anche per me, visto che sono 30 anni ormai che se ne parla, con le varie bicamerali, il referendum bocciato e gli altri tentativi che si ripetono, ciclicamente, sempre senza alcun successo. Ora parrebbe che ci sia quasi un punto di svolta. Ma l'idea di proporre una modifica così radicale come quella dell'introduzione dell'elezione diretta del presidente della Repubblica, facendolo sotto forma di emendamento in Aula quando si discuterà il progetto di riforma costituzionale, non mi sembra cosa molto seria, con tutto il rispetto per chi lo ha proposto.

E quando si parla di riforma costituzionale sarebbe opportuno, a mio avviso, che ci fosse un coinvolgimento, cioè che i cittadini fossero partecipi al dibattito. Non si può tirare fuori all'improvviso dal cilindro il coniglio e proporre l'elezione diretta sul modello del semipresidenzialismo francese senza che nessuno ne sappia niente, senza che il Paese sia stato messo in condizione di conoscere i contenuti e il significato del semipresidenzialismo alla francese.

A questo punto l'idea di un referendum consultivo, per quanto balzana, ha una sua coerenza, per lo meno si chieda ai cittadini: volete voi che il presidente della Repubblica continui ad essere eletto dal Parlamento in seduta comune oppure che sia eletto a suffragio universale? Per lo meno per sondare cosa ne pensa la gente, cioè i destinatari naturali della Costituzione.

Detto questo, non deve spaventarci l'ipotesi di introdurre l'elezione diretta. Prima di tutto perché, e qui vorrei essere rassicurato da Nucara, credo che l'ipotesi sia in linea con il pensiero liberaldemocratico. Cioè in linea con chi crede che i cittadini siano persone mature in grado di saper scegliere e non di delegare sempre e comunque, ma anche di assumersi le scelte di guida del Paese.

Del resto è dal 1993, lo facciamo a tutti i livelli substatali: eleggiamo direttamente il sindaco, il presidente della Provincia, il presidente della Regione. Ci può essere negata la possibilità un giorno di poter eleggere il presidente della Repubblica? Delle due l'una: o siamo maturi fino a un certo punto - e cioè fino alla circoscrizione elettorale regionale, dopo di che non lo siamo più - oppure siamo maturi in tutto e per tutto e quindi siamo in grado di eleggere sia il sindaco sia il presidente della Repubblica.

Inoltre, secondo me, l'ipotesi rientra nella linea interpretativa costituzionale del Partito Repubblicano. Come dimenticare la battaglia di un personaggio molto controverso nella storia repubblicana ma che ha avuto una sua forza come Randolfo Pacciardi, che del presidenzialismo ha fatto una battaglia continua? Ma ricordiamo anche coloro che sono stati nel partito d'Azione, come Leo Valiani, Pietro Calamandrei, sempre molto vicini e molto confinanti con l'impegno politico dei repubblicani.

Non deve spaventare l'elezione diretta del presidente della Repubblica. Il nodo però non è tanto la riforma costituzionale (perché io credo che non se ne farà nulla per via dei tempi molto stretti rispetto ai tempi necessari costituzionalmente previsti e ancora di più se si deve sottoporre a referendum l'eventuale riforma costituzionale) ma la riforma elettorale. Cioè in che misura il prossimo Parlamento dovrà essere rappresentativo delle forze politiche. Qui io non ho difficoltà: parlano i miei testi, i miei scritti. Io ho sempre sostenuto l'ipotesi maggioritaria; ma questa ipotesi maggioritaria ha avuto un senso laddove il nostro Paese si è posizionato in un meccanismo bipolare fondato sulle coalizioni: è vero che è stato sofferente, ma è vero pure che ha funzionato. Non dimentichiamoci che dal 2001 al 2006 c'è stato un presidente del Consiglio che ha potuto governare per l'intero mandato di legislatura, cosa che non era mai avvenuta prima nella storia repubblicana, dal 1948 ad oggi.

Oggi però quel meccanismo ha meno senso di prima, anche perché è cambiato lo scenario politico. Le coalizioni si sono fortemente indebolite, ammesso che esistano ancora: nel centrodestra la coalizione con la Lega ha perso quella attrattiva che aveva un tempo, nel centrosinistra non si capisce bene quale potrebbe essere la coalizione, se quella della foto di Vasto o, piuttosto, stando alle ultime dichiarazioni, l'alleanza Casini-Bersani.

Allora bisogna pensare a un sistema elettorale che non mortifichi le rappresentanze cosiddette minori, ma che anzi dia loro la possibilità, in questo frangente storico e in questa contingenza politica, di esser parte attiva e indispensabile per ricreare una ambientazione politica proiettata verso una crescita del Paese in un momento storico così delicato e così difficile quale quello dovuto alla crisi economica che stiamo subendo, e che ci consenta di costruire tutti insieme, come diceva Nucara, gli Stati Uniti d'Europa.

Stati Uniti d'Europa: formula molto suadente, ma bisogna militare tutti i giorni per questo, perché non è che l'Europa può andare bene a determinate condizioni ma, quando invece ci vengono imposti barriere e paletti a livello economico, allora non va più bene.

L'Europa è un progetto costituzionale che deve essere completato, proprio perché deve diventare costituzionale. Anche lì è stato tutto frutto di un inganno. Ricordiamo la grande polemica che si creò quando si provò ad elaborare ed approvare il trattato che formula una Costituzione per l'Europa. Allora Amato disse che si trattava di un “ermafrodita”, perché non si sapeva se fosse un trattato maschio o una Costituzione femmina. Aveva ragione: in quella battuta un po' brutale ne aveva colto esattamente il significato, tanto che poi la Francia lo bocciò, la Svezia lo bocciò. Oggi si parla di trattato di Lisbona, ma la cosa non va bene.

Rompiamo questo tabù e parliamo di una Costituzione Europea! Vogliamo una Costituzione Europea! D'altronde i nostri diritti non sono più soltanto quelli scritti nella Costituzione italiana: quelli già ci sono. Oggi abbiamo ormai i diritti fondamentali della Convenzione europea dei diritti dell'Uomo, quelli elaborati a Nizza nel 2000, che oggi fanno parte del cosiddetto Trattato di Lisbona. Oggi, quando ci si rivolge a un giudice, ci si appella a quei diritti, non più solo ai diritti nazionali. E allora chiudiamo il cerchio, cerchiamo di fare nostra questa concezione costituzionale europea perché, laddove si fortifica questa idea di spazio costituzionale europeo, lì può nascere l'idea e concretizzarsi l'esperienza degli Stati Uniti d'Europa.

Chiudo con una battuta sui provvedimenti che sta portando avanti il governo, un governo molto anomalo, cosiddetto tecnico. Un governo che poi quando prende provvedimenti diventa un governo politico e gode di una fiducia del Parlamento mai avuta nella storia repubblicana. Altro che grossa coalizione, qui siamo di fronte a maggioranze che un tempo si sarebbero dette bulgare!

L'idea di abolire le Province, l'idea di riscrivere il sistema del decentramento provinciale è un'idea che porta un nome e un cognome: Ugo La Malfa. E' un'idea repubblicana. La battaglia contro le Province è una battaglia repubblicana, come lo è quella per un federalismo che sia tale, che sia un federalismo fondato sulla libertà secondo il modello statunitense, laddove federalismo vuol dire libertà e vuol dire separazione dei poteri in senso verticale, oltre che orizzontale.

L'abolizione delle Province potrà costare dei sacrifici in termini di sviluppi che si sono andati a creare nel territorio, ma è una battaglia di igiene costituzionale. E' chiaro che per abolire completamente le Province bisogna tornare a riformare la Costituzione prendendo il bianchetto e cancellando la parola Provincia ogni volta che si incontra nella Costituzione. Questo è un provvedimento che forse può avere il sapore quasi di un abuso da parte del governo per avere agito tramite decreto: però è indispensabile, è necessario e secondo me anche consequenziale a un'idea di federalismo prevalentemente basato sulle autonomie territoriali.

Le Province in Germania non ci sono, negli Stati Uniti non ci sono. Ci sono in Spagna, in altre realtà. Prendiamo atto anche di questo, che l'articolazione del territorio deve fondarsi su grandi enclave. L'idea che sulla base del federalismo - modello statunitense - si possa declinare anche il meccanismo del nostro Paese è fondata però su un errore costituzionale. E’ l'articolo 114 scritto dal legislatore nel 2001. Una follia: “La Repubblica è costituita da Città Metropolitane, Comuni, Province, Regioni e Stato”. Mettere tutto sullo stesso livello è un errore concettuale e costituzionale di cui per adesso non abbiamo sofferto le possibili nefaste conseguenze perché, per dirla con una battuta semplificativa: il capo dello Stato, chi è? E' solo il capo di una parte della Repubblica e magari non lo è delle Città metropolitane, non lo è dei Comuni? Tanto per dire quali assurdità e quali ossimori esistano in una certa idea bislacca del federalismo.

Il risultato qual è? Un articolo 114 schizofrenico. E anche l'articolo 117. La Corte Costituzionale per vent'anni, da quando è entrata in vigore la riforma costituzionale, non ha fatto altro che occuparsi del contenzioso Stato-Regioni, non ha fatto altro che riscrivere il titolo V andando a spiegare se una è materia di competenza regionale o è piuttosto materia concorrente. E che vuol dire concorrente? E fin dove lo Stato può agire o si deve fermare? Ma è possibile tutto questo? Possibile che una riforma presentata come la Grande Semplificazione del Paese possa diventare una autentica zavorra per il Paese bloccando le autonomie territoriali, bloccando le amministrazioni pubbliche locali, bloccando un organo costituzionale come la Corte in un difficile e impegnativo lavoro come quello della riscrittura della Costituzione, che peraltro non gli appartiene?

*ordinario di diritto pubblico comparato, Università di Napoli "Suor Orsola Benincasa"